Capitolo 4

In un'altra salumeria del Borgo Sant'Antonio Assuntina Cannetiello chiacchierava animatamente con la signora Concetta del quarto piano di fronte casa sua dei prezzi della carne, della pulizia del vicolo e infine dei loro ragazzi a scuola. Di tanto in tanto il salumiere Armando chiedeva se il peso di qualcosa andava bene o se doveva togliere.
«E speriamo che Salvatore quest'anno mette a' capa a fa bene.» disse a un certo punto la sua vicina. Era una donna di 40 anni che ne dimostrava almeno dieci in più: i capelli spettinati, le rughe che le solcavano già il contorno degli occhi e della bocca e un petto enorme, come se avesse allattato dieci figli. Dalla sigaretta ormai a metà, aspirava a grandi boccate mostrando poi i denti ingialliti come in una smorfia di dolore.
«E sì, tene già 13 anni.»le rispose Assuntina.
«E però se non va a scuola che fa?» disse la donna guardando il salumiere come in cerca di consenso alle sue parole. Il salumiere si limitò a sorriderle e ad annuire, mentre incartava i due etti di prosciutto.
«No, quest'anno ci va eccome!» rassicurò Assuntina un po’ seccata. «E suo padre ha detto che gli spezza le gambe e poi lo manda a faticare, così vede che significa. No, no, quest'anno ci va, ci va!»
Lo sguardo serio e poco convinto della signora Concetta in risposta alla sua sicurezza, diceva niente e diceva tutto.
«Ma perché signora Conce’, sapete qualcosa che io non so?»
«Vanno bene 100 grammi signora Cannetiello?» si inserì Armando.
«Sì, sì...» lo liquidò con un cenno della mano senza nemmeno guardarlo perché ciò che attendeva con ansia era la risposta della vicina che con quel silenzio e quella smorfia fingeva di non voler dire, mentre era chiaro che non vedesse l’ora di parlare.
«Ma veramente...» disse puntando con gli occhi l’uscita.
Assuntina capì, pagò il formaggio e il pane, appese la busta al passeggino dove Maria Concetta riposava tranquilla e insieme alla sua vicina si incamminarono verso casa.
«Io non so se faccio bene a dirvelo, ma...»
«Dite pure, dite.»
«Mio fratello, lo sapete quello tiene il negozio di bombole a gas all'angolo del Corso Garibaldi, vicino alla tabaccheria. E lui dice che a Ciurillo lo vede spesso dalle parti di Porta Capuana la mattina. Gioca a pallone con degli amici.»
«Ma siete sicura? Parlate di Ciurillo? Salvatore mio? Non è che si è sbagliato con qualcun altro?»
«E come si sbagliava donna Assunti’? Lui l'ha visto crescere a Salvatore, hehe, lo conosce bene. Fidatevi, era lui. Era insieme ad altri ragazzi che non sono del nostro vicolo, saranno di Porta Capuana. Ragazzi più grandi, sui 15, 16 anni.»
Assuntina era sbiancata. Se Lino lo veniva a sapere questa volta davvero le gambe gliele avrebbe spezzate a Salvatore. Doveva parlargli appena tornava, prima che suo padre rincasasse dal lavoro.
E proprio mentre lei si lambiccava il cervello per cercare le parole giuste da dire a sua figlio, quel disgraziato, Salvatore rincorreva un pallone da calcio in un vicoletto dove le macchine non passavano poiché era una strada senza uscita dove si entrava tramite una rampa di scale in pietroni rettangolari.
Le porte erano segnalate da bottiglie di plastica recuperate tra le montagne di rifiuti accanto ai cassonetti già ricolmi. Era ormai una prassi che il camioncino per la raccolta dei rifiuti non si facesse vedere per giorni. Forse perché era una seccatura per i netturbini andare avanti e indietro e su e giù per le scale con i sacchetti pesanti. O forse semplicemente saltavano i turni come in ogni parte della città, solo per il gusto di farlo, tanto nessuno li avrebbe controllati e nessuno li avrebbe multati, o minacciati di licenziamento. La conseguenza era che i sacchetti si accumulavano e in alcune zone arrivavano a formare collinette anche di un metro e mezzo o trincee lunghe come nella prima guerra mondiale. Succedeva poi, che qualche cane o gatto randagio si trovasse a passare e che per la fame si mettesse a scavare e a forare sacchi e buste, lasciando travasare lattine, bottiglie in plastica o in vetro, cartoncini del latte, scatolame vario, verdure secche o ingiallite, frutta marcia, contenitori per il detersivo.
Succedeva anche che qualcuno si stufava di sentire quel fetore sotto casa che attirava, tra l'altro, topi grossi come gatti, e decideva per tutti gli abitanti del quartiere che la soluzione migliore sarebbe stata quella di appiccare il fuoco. L'odore di bruciato che sprigionava e il fumo nero forse erano anche più dannosi alla salute del putrido dei rifiuti, ma nessuno lo sapeva o forse se nessuno se ne curava. L'importante era che il volume della ' munnezza' diminuisse e che gli animali randagi se ne stessero lontani. A Napoli negli anni ottanta, ma chissà ancora quanto tempo prima, avevano già inventato gli inceneritori di quartiere che partivano per desiderio di privati cittadini. Per i napoletani la burocrazia era pura metafisica.
Le leggi del governo di Roma in questa città, infatti, non erano minimamente considerate: laddove esisteva un problema, la prima soluzione possibile diveniva automaticamente anche quella più adatta. Inutile ragionarci, inutile perdere tempo a discutere, a pesare proposte sul piatto della bilancia. Arrivano cani, gatti, topi? E poi le mosche e gli scarafaggi? La puzza è nauseabonda? I netturbini non arrivano? Il Comune se ne frega? Appicciamme tutte cose! Bruciamo tutto! E in pochi minuti il problema, a modo loro, era risolto.
Di tutto questo non si interessava di certo il nostro Salvatore che ad ogni goal segnato esultava come se avesse vinto la Coppa dei campioni. Il suo compagno di squadra Marittiello gli gridava «schìe o 'cinque» e si scambiavano una schiacciata di mano sonora e alquanto dolorosa. Gli altri due compagni do gioco, uno smilzo da sembrare anoressico, l'altro grosso tanto che la maglietta gli si alzava sulla pancia, si guardavano perplessi accettando la sconfitta a testa bassa.
«Guagliù mo' me ne devo andare, alla prossima, vi facciamo un'altra mazziata, hahaha!» li prendeva in giro Salvatore.
Mani in tasca fischiettando un pezzo neo-melodico, se ne andava nei pressi della scuola dove lo attendeva un suo compagno di classe al quale aveva prestato il suo libro di italiano. Con quello sottobraccio e il diario lindo come il giorno in cui lo aveva comprato, tornava a casa sereno e un po' affaticato.
«Nè Ciurì, ti vedo stanco assaje.» disse sua madre senza guardarlo.
«E 'sta scola ma'...»
«E quello si sa, la scuola stanca, stanca tanto!»
«Che si mangia?»
«Spaghetti ca pummarola»
«Buoni!»
«Vatta a lavà le mani.»
«Già fatto!» diceva prendendo posto a tavola. Maria Concetta intanto si era addormentata tra le braccia di sua madre che aveva sguardo teso come le corde di un violino. Ma Salvatore non se ne poteva accorgere perché non la guardava. Era interessato ad un programma su Rai uno.
«Ma te le sei lavate bene le mani Ciurì?»
Era stato allora che il ragazzo l'aveva guardata avendo compreso dal tono della voce e dal fatto gli spaghetti erano ancora nella pentola e non nel suo piatto, che c'era qualcosa che non andava.
«Sai, giocando a pallone le mani si sporcano assaje.»
«Giocando a cosa?»
«Non fare lo scemo con me, Salvato’, che menomale che tuo padre non sa nulla! Ho chiamato a scuola oggi e mi hanno detto che eri assente e che hai ben sette giorni di assenza non giustificati. Ma che vogliamo fare, vogliamo perdere un altro anno?»
«Ma si saranno sbagliati a scuola, quelli sono tutti scemi!» disse puntando l'indice contro la tempia e facendolo roteare.
«E si sarebbero inventati sette giorni di assenza, così come si è sbagliato qualcuno che ti ha visto giocare a pallone in questi giorni nell'orario di scuola!»
Assuntina andò a posare Maria Concetta nella culla, poi riscaldò velocemente la pasta e ne versò una mestolata nel piatto di Salvatore che non aveva osato dire più nulla. Per quel giorno bastava così. Adesso toccava a Salvatore dimostrare di aver capito l’errore.
Salvatore, invece, a dire il vero non aveva capito proprio nulla se non che il mondo era un vero schifo, perché lui voleva giocare a pallone, voleva diventare un attaccante del Napoli, uno forte e famoso. Della scuola non gliene fregava nulla, davvero non riusciva a comprenderne l'utilità. Tutte quelle materie a cosa gli servivano? A cosa gli serviva studiare i Greci, i Romani? Erano tutti morti! E la grammatica? Ma a chi interessava la differenza tra aggettivi e pronomi, o l'uso del congiuntivo? Lui sapeva parlare bene in napoletano e quello contava! L'inglese, poi...lui non aveva nessuna intenzione di lasciare Napoli o l'Italia, a cosa gli sarebbe servito conoscerlo? Per non parlare poi della matematica: ma una volta che avevi imparato le quattro operazioni, a cosa serviva studiare tutto il resto? A lui piaceva solo educazione fisica, l'unica materia in cui aveva 9. Il resto era solo una perdita di tempo, anzi una tortura!
Purtroppo la scuola di calcio costava troppo e suo padre a quel tempo lavorava come capitava, per cui niente, doveva accontentarsi di giocare per strada con i suoi amici, che non era proprio la stessa cosa. Non riusciva comunque a rassegnarsi. Prima o poi avrebbe frequentato una scuola di calcio, seria, oppure si sarebbe messo a palleggiare davanti al campo dove si ritirava il Napoli, a Soccavo. Lì lo avrebbero notato e preso subito a giocare, ne era certo!
Ma per adesso doveva accontentarsi e allenarsi, allenarsi più che poteva e sognare ad occhi aperti, questo almeno era gratis!
( continua )

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