Come sterminare la propria famiglia nella notte di Natale e partire sereni per le Bahamas.
Dedicato alla mia amica Maria che me lo ha ispirato 




cap 18

Sedute in un bar, davanti a un fumante cappuccino e a un fragrante cornetto al cioccolato, io e Jessica ci stavamo rilassando i piedi doloranti, quando l'apparizione di una sagoma a me molto familiare quasi mi fece andare di traverso un boccone. D'istinto alzai il menù formato 25 x 30 e me lo posizionai davanti al viso. Mia cugina lo scostò con la mano e mi fece cenno con gli occhi: ''ma che cavolo ti prende?''. Riposizionai subito il menù e sussurrai: «C'è la zia Maria Grazia!»
Jessica stava per girarsi quando la bloccai: «Non lo fareee!»
«Ok, ok, va bene. Vedrai che prende il caffé e se ne va.» mi confortò con un sorriso.
La zia Maria Grazia era la sorella più piccola di mia madre, docente santissima di pedagogia nel migliore liceo delle scienze umane di Napoli.
Single, mezza età, magra, capelli di un rosso-supermercato, occhiali di madreperla, calze color beige antistupro, per la serie quando i cliché non sono un'opinione, la cara zia non mancava mai di elargire i suoi preziosi consigli pedagogici a destra e a manca, sfidando anche la pazienza del Signore Dio nostro. Sono convinta che la causa di una serie di tic nervosi dei quali ho sofferto fino ai 6 anni, sia stata la sua sovente presenza a casa nostra durante la quale somministrava quotidianamente le sue perle di saggezza su come crescere un figlio in maniera PERFETTA.
Siccome in quegli anni mia madre si sentiva succube della sorella laureata, mentre lei a stento aveva preso la terza media, accettava di buon grado i suoi consigli, trasformando me in una cavia da laboratorio per le teorie pedagogiche degli ultimi vent'anni.
Per far fronte alle varie situazioni, mia madre si procurò un timer programmandolo in base non alle mie esigenze, bensì a quelle di quegli stramaledetti studiosi di pedagogia, che quasi sicuramente non avevano mai avuto un figlio, proprio come la cara zietta.
Così accadeva che mia madre smettesse di tenermi in braccio dopo esattamente dieci minuti, tempo massimo consentito, superato il quale il bambino si vizia e poi vuole stare sempre in braccio (strano per un bambino vero?). Io ovviamente piangevo, ma non importava, a pochi mesi dovevo capire che non potevo stare immersa nel calore corporeo di mia madre come e quanto volevo.
La mia routine doveva essere rigidamente cronometrata come quella di una futura operaia: sveglia presto, pappa, cacca e pipì, gioco, nanna; risveglio forzato, gioco, pappa, cacca pipì, gioco, nanna forzata, il tutto cronometrato.
La voce ormai robotica di mia madre ripeteva con un amorevole sorriso: «Basta giocare ora è ora di...basta dormire ora è ora di...basta mangiare ora è ora di...»
Il problema era che io ero rimasta con il fuso orario di quando vivevo nella pancia di mia madre e tutti quegli squilli del timer erano in contrasto con la mia sete di libertà e di totale anarchia, ma si sa la scienza è scienza, cosa potevo saperne io povera infante del mio benessere?
Lo shock più grande lo ebbi il giorno in cui la zia Maria Grazia lanciò uno sguardo hitleriano a mia madre. Io capivo poco allora, eppure ebbi un'illuminazione mistica: mi tolsi il ciuccio di bocca e lo nascosi dietro la piccola schiena, convinta così di proteggerlo dal demonio. Fu inutile. Mia madre il giorno dopo mi dette la triste notizia che il mio adorato ciuccio sostitutivo del capezzolo materno da cui mi ero dovuta separare a sei mesi perché a pagina 98 della bibbia della pedagogia moderna si affermava che una volta iniziato lo svezzamento era inutile (avete capito bene INUTILE) continuare ad allattare, ebbene il mio adorato ciuccio era stato preso da un angioletto per portarlo a un bimbo più piccolo. Devo ringraziare comunque mia madre per aver addolcito la fantasiosa storiella, dato che quella di mia zia invece terminava con il ciuccio schiacciato sotto un camion.
Privata del ciuccio e di tutto il suo significato inconscio, cominciai a soffrire di insonnia. Anche per questo problema fu interpellata la luminare della pedagogia, che ordinò a mia madre di somministrarmi un infuso da mezzo litro di camomilla, valeriana, melissa; di mettere come sottofondo il notturno di Chopin a ripetizione e di lasciarmi da sola al buio della mia stanza. Dovevo imparare a combattere e vincere le mie paure, sosteneva la zietta. Peccato che al buio la mia fantasia elaborasse mostri come il migliore sceneggiatore di film dell'orrore anni settanta, per cui i miei occhi restavano chiusi sì, ma il corpo teso come una corda di violino in attesa che una grande mano scheletrica, rugosa e insanguinata mi afferrasse da sotto al letto e mi trascinasse agli inferi.
La mattina dopo avevo delle occhiaie da fare a gara con un panda e siccome nessuno era a conoscenza delle mie notti bianche, la cara zietta tirò fuori il suo asso dalla manica: «Portala da un medico è a rischio depressione. Anche il nonno ne soffriva, potrebbe essere ereditaria.» Mia madre eseguì naturalmente, portandomi da un neuropsichiatra amico della zia, che dopo un interrogatorio di circa dieci minuti, mi prescrisse semplicemente degli infusi a base di camomilla, valeriana e melissa, mi strizzò l'occhio e riferendosi a mia madre disse: «Con l'adolescenza vedrà le passerà tutto!» Peccato che l'adolescenza fosse lontana ancora qualche anno...
Mia madre rimase molto delusa. Aveva speso 150 euro per sapere che sarebbero bastate un po' di camomilla e l'arrivo dell'acne, ciclo e ormoni a palla per risolvere il mio stato di torpore e stordimento, insomma il normale corso della vita. Sarebbe stata molto più felice di aver speso tutti quei soldi per sapere che ero malata, altrimenti che senso aveva avuto andare da uno specialista?
Era troppo! Dopo quell'episodio litigò con la zia Maria Grazia pretendendo da lei almeno la metà della parcella medica e quando la dotta sorella si rifiutò sostenendo che che quello specialista forse non era tanto preparato, io assistetti ad una scena che sognavo da tempo: mia madre che sospingeva la zia fuori dal nostro appartamento con tanto di ringraziamenti ipocriti.
Chiusa la porta afferrò i vari libri di pedagogia che la sorella le aveva prestato, li chiuse in un sacchetto e li andò a buttare nel più lontano bidone della spazzatura.



(continua)







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