Dal capitolo 6, ancora Axel                 

Avrebbe voluto parlarle di quello che le era successo quel pomeriggio, magari riderci sopra per sminuirlo, ridicolizzarlo e dimenticarlo, ma dopo aver ricevuto quella notizia le sembrava alquanto inopportuno. Inoltre, come avrebbe mai potuto cominciare il discorso: “Sai mamma oggi ho sbagliato strada e per caso mi sono ritrovata davanti a quella galleria abbandonata e sempre per caso mi ci sono avvicinata ed è lì che ho visto due occhi malefici fissarmi dal buio più profondo”. No, quella sarebbe stata la volta buona che l’avrebbe portata di nuovo dallo psicologo. Ci era già stata qualche tempo dopo che suo padre le aveva lasciate e non era stato affatto piacevole. Ricordava bene quel dottore che la guardava dritto negli occhi senza sorridere mai, con quegli occhiali appoggiati sulla punta del naso largo, l’aria annoiata e saccente.
Ciò che la intristiva maggiormente era il volto di sua madre quando si congedavano prima della seduta, mentre la porta dello studio si chiudeva. Si sentiva in colpa per non essere mentalmente sana. Spesso durante le visite, pensava a lei seduta nella sala attesa, i capelli raccolti, la gonna stretta, i tacchi e lo smalto, sempre bella, impeccabile eppure immensamente triste. Triste anche per colpa sua. Doveva guarire, doveva diventare normale come tutti gli altri, anche se questo significava raccontare bugie al dottore, come dirgli che non aveva più incubi, che dormiva bene tutta la notte e che non sognava nulla; che aveva capito che suo padre non se n’era andato via perché non le volesse bene, ma perché nella vita certe cose accadono e bisogna accettarle. Aveva anche ripreso a mangiare e a sorridere. Questo dopo più di un anno di terapia. Poco importava che il dottore si attribuisse ogni merito della sua presunta guarigione. Axel lo faceva solo per sua madre, doveva tornare tutto come prima, o quasi. Non c’era speranza, in realtà, che tutto si ricomponesse magicamente come in un puzzle. Dopo aver finto che fosse tutto ok, mentre mentiva con maestria affermando di non piangere spesso, di non sentirsi terribilmente sola, di avere tante amiche che le stavano accanto, di aver compreso le ragioni per cui suo padre se ne fosse andato, le sedute erano terminate e finalmente lei e sua madre si erano riprese la loro vita tra lavoro, scuola e casa di campagna, immergendosi in una confortevole routine. Da allora Axel aveva imparato l’arte del tenersi tutto per sé, come in una scatolina segreta in fondo al cuore, inconsapevole delle crepe che si erano create. Cancellare suo padre dalla sua memoria e dalla sua vita, piano piano era divenuto sempre più facile. Per molto tempo aveva conservato il ricordo del suo dopobarba, quando alla mattina lei entrava in bagno dopo di lui; così come il ricordo della sua voce bassa, degli occhi scuri e grandi come le sue mani; e la barba folta che le pungeva il viso ogni volta che la baciava con lei che si strofinava il visetto e ridacchiava. Delle uscite al parco rammentava poco, se non immagini lampo, perché raramente uscivano, dato che lui era sempre molto stanco e preferiva starsene sul divano davanti alla tv, per riposarsi nel fine settimana. Poi un bel giorno tutto era finito. Suo padre aveva deciso che quella non era più casa sua, che quella non era più sua moglie e che lei non era più sua figlia. Con il tempo e la forza di volontà, i pochi ricordi che aveva di lui si erano ridotti a immagini sfocate e insignificanti.   
«A cosa pensi?» disse all’improvviso sua madre. 

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