Dal capitolo 25 de: "La Galleria"


Marco osservava le prime ombre della sera sbuffando. Ma cosa diavolo stavano facendo? Tra un po' sarebbe giunta l'ora di andare a casa e lui rischiava di non concludere nulla. A dire il vero, la voglia gli era anche passata. L'idea di proseguire in quella galleria fredda e buia non lo ispirava molto. Quanto gli mancava il suo letto e il divertimento meno faticoso della play4!
In quel mentre, il rumore dei passi lenti di Axel lo distrasse dai suoi pensieri. La ragazza non uscì del tutto allo scoperto, si fermò nella penombra. Vedeva solo una parte di lei come se fosse tagliata in due. Gli fece cenno da lontano di alzarsi e di seguirla. Marco annuì.
Ma era sangue quello che aveva sul braccio? Battè gli occhi nervosamente per mettere a fuoco l'immagine. Inutile. Il tempo di abbassare il capo e di rialzarlo ed Axel era sparita.
Si sentiva confuso, come sospeso in uno spazio che non conosceva e questo stato di incertezza lo terrorizzava.
Una vocina sconosciuta nella sua testa gli stava suggerendo di trovare una scusa qualsiasi e di tornarsene a casa, anche da solo. Ma era una voce troppo debole, ce n'era un'altra più forte e lui preferì seguire quella.
A passi decisi, Marco si avviò verso la gola nera dove Axel era apparsa come un fantasma per pochi istanti. -Ehi!- le aveva urlato dietro invano. Silenzio.
-Matte!- chiamò. -Axel, dove siete? Qui non si vede nulla!- 
Marco camminava rasente al muro ruvido e poroso, strisciandovi la spalla per seguire una direzione, mentre con una mano allungata in avanti tastava il buio. I suoi piedi pestarono qualcosa di duro e sottile, che si agitò al suo contatto. Emise un grido di spavento che echeggiò in tutta la gola. Si incollò con la schiena alla parete, mentre avvertiva qualcosa scappare nel buio e squittire. Un topo! Un dannato topo! E chissà quanti ce n'erano ancora! Dove aveva letto che il morso di un ratto poteva avvelenarti il sangue e ucciderti? Adesso la paura era diventata una sensazione concreta, che infiammava ogni angolo del suo corpo.
-Basta così, molto divertente!- urlava per farsi coraggio in quel silenzio tombale.
-Venite fuori ora, è tardi. Matte, dobbiamo tornare a casa!-
Sotto i suoi piedi, qualcosa schricchiolò. Doveva essere del semplice terriccio, ma in quel buio nulla sembrava normale, quanto piuttosto insolito o pericoloso. Quel silenzio, in fondo era davvero inusuale, possibile che volessero spaventarlo? E per quale motivo? Sarebbe stato un gioco stupido, da ragazzini! E poi suo fratello che giocava alleandosi con Axel contro di lui? Era impossibile! Loro erano una squadra, facevano sempre tutto insieme, loro due contro il mondo intero! In fondo non erano andati lì per spaventare lui, bensì per divertirsi a scapito di Axel.
La mano che usava per orientarsi alla sua destra si graffiò su una protuberanza appuntita della parete rocciosa. Sentì un leggero bruciore e avvertì subito il sangue caldo scorrere sul palmo. Si portò istintivamente la mano alla bocca per sigillare la ferita con della saliva, e in quel momento si voltò di scatto: aveva finalmente preso la decisione di uscire fuori e anche in fretta.
-Ok, va bene, che gioco stupido! Ho capito, me ne vado!- fece due passi appena. In quel momento, qualcosa di pesante e duro lo colpì violentemente dietro la nuca. Davanti a sé l'uscita, come un minuscolo faro biancastro, si spense nel giro di qualche secondo, il tempo di stramazzare al suolo.

Daniela stava preparando una crostata di mirtilli. Axel l'adorava. Non le aveva detto nulla, doveva essere una sorpresa. Guardò l'orologio e si accorse che erano già le sei e mezza. Mandò un messaggio ad Axel per sapere a che ora sarebbe tornata
. La spunta del “ricevuto” non apparve.
Sarà in giro in bici” pensò. Infilò la crostata nel forno e andò a farsi una doccia.

Quando riaprì gli occhi, Marco si ritrovò davanti una scena che sembrava tipica di quei film dell'orrore che gli piacevano tanto, e che lo divertivano tanto, quelli che era solito vedere stravaccato sul divano con suo fratello, mentre si gonfiavano di popcorn o patatine, bevevano coca e ruttavano ridendo di gusto dinanzi a ogni scena sanguinosa o rivoltante.
La differenza sostanziale era che quella davanti a lui non era la scena di un film quanto una soffocante realtà. E c'era poco da ridere ora.
Il terrore e l'incredulità giocavano nella sua mente come in un immaginario palleggio. Non poteva essere vero, non poteva, non doveva.
Un grosso cero era stato lasciato acceso in un angolo da qualcuno, forse perchè lui vedesse quello che c'era da vedere. Così osservò se stesso seduto per terra con le gambe tese, i piedi legati e le mani immobilizzate dietro la schiena. Scosse la testa più volte per cercare di allentare la benda che gli premeva contro la bocca. Era raffreddato e faticava a respirare solo con il naso. Quel movimento però gli accentuò il dolore alla testa e il bruciore forte dietro alla nuca, mentre la benda restava al suo posto. Si arrese, continuando ad allargare le narici e a respirare come dopo una lunga corsa.
Dinanzi a lui a pochi metri c'era Matteo, seduto, legato e imbavagliato, il capo chino da un lato e gli occhi chiusi. Dall'attaccatura dei capelli sulla fronte partivano diversi rivoli di sangue che gli ricoprivano gran parte del viso. Erano scuri e densi. Doveva essere stato fermo così da un bel po'. Tutto intorno a lui era sangue e resti di qualcosa di molliccio che da lì era impossibile capire esattamente cosa fosse. Risalì con gli occhi verso quel volto inerme e provò a chiamarlo, emettendo soltanto dei suoni gutturali. Soltanto allora si accorse che la posizione del collo di Matteo era del tutto innaturale.
Lacrime calde uscirono dai suoi occhi stanchi.
Da quanti anni non piangeva più? Forse da quella volta in cui suo padre lo aveva malmenato a dovere perchè aveva preso la bicicletta senza permesso. In quella occasione gli aveva rotto il naso e in ospedale aveva dovuto mentire affermando di essere caduto dalla bicicletta, mentre suo padre gli cingeva il braccio con l'indice e il pollice, come un laccio emostatico, affinchè raccontasse la storiella con assoluta convinzione. Il dottore di turno aveva guardato il padre energumeno e il figlio impaurito con una certa perplessità, ma al Pronto Soccorso erano tanti i casi urgenti quel giorno e lui non era un investigatore. Firma sul foglio di uscita e pace con Dio.
Erano passati almeno tre anni da quell'episodio e altre punizioni corporali si erano susseguite nel silenzio del focolare domestico, davanti allo sguardo assente e malinconico di sua madre, stretta nelle sue spalle ossute, vittima afona anche lei della stessa violenza.
Scuotendo la testa Marco si liberò di quegli inutili ricordi. Adesso il presente era la sua urgenza. Era legato mani e piedi, con suo fratello immobile e silente. Troppo silente. Passò lo sguardo rapido sul suo petto e sull'addome. Attese un benchè minimo movimento, anche leggermente percettibile, tra le pieghe della sua maglietta sporca di sangue. Nulla.
Non osava nemmeno pensare che potesse essere... NOO!!
Era in incubo, sì doveva essere un incubo. Presto si sarebbe svegliato, avrebbe dato una sberla affettuosa al fratello ancora nel suo letto per svegliarlo e insieme sarebbero andati a scuola come tutti i giorni, armati della loro andatura spavalda, e in tasca il cellulare, le sigarette e gli spiccioli rubati ai pivellini di prima.
Passarono alcuni minuti pesanti come macigni. Non accadde nulla. Marco non si svegliò in camera sua. Era sempre lì in quella gola nera con il freddo che continuava a intorpidirgli le membra già anchilosate per la posizione forzata. L'ombra della fiammella cominciò a vibrare sul muro nervosamente, finchè non si spense. Fu allora che il buio lo avvolse abbracciandolo diabolicamente in una dimensione senza tempo e senza spazio.
Marco cominciò a tremare come se fosse stato nudo in mezzo ai ghiacci, come in preda a scosse elettriche. Alzò gli occhi al soffitto nero e svenne.

(continua)



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