Salve a tutti, innanzitutto buon lunedì! Io sono una di quelle persone strane a cui il lunedì piace e pure tanto, forse perché mi dà un senso di "inizio", parola che adoro.
Da oggi pubblicherò a puntate tutto ciò a cui sto lavorando: la prima stesura di "Oltre il Vesuvio", l'editing di "La fine e il Principio" ( il mio primo romanzo inedito e terminato nel 2014 ) e il continuo di "Come sterminare la propria famiglia nella notte di Natale e partire sereni per le Bahamas".

Cominciamo da "Oltre il Vesuvio", ma questa volta per bene, niente estratti, cominciamo dal principio. Buona lettura 😙😙 e buon lunedì!



OLTRE IL VESUVIO

romanzo di Emilia Capasso

Capitolo primo

Alle ore sette del mattino nel Vicoletto Sant Antonio Abate il sole tracciava una figura geometrica simile a un triangolo, il cui angolo più basso andava a illuminare per metà il balconcino di Salvatore Cannetiello. La luce filtrando tra le persiane dal colore incerto disegnava delle righe sul lenzuolo bianco che Salvatore tirò fino a coprirsi la testa. Nel suo mondo leggero e impalpabile, giocava a pallone per strada con un suo compagno del quartiere. Ad un certo punto, un vento forte e gelido aveva cominciato a soffiare, provocandogli dei brividi su per la schiena. «Miche' e passa 'sta palla!» aveva urlato al suo amico senza fisionomia, mentre cercava con gli occhi il suo giubbotto senza trovarlo. 
Alle sette e cinque la sveglia si era messa a tintinnare come un martello su un carillon facendo dissipare il vicoletto, Michele e la palla, nel nulla da cui erano apparsi pochi minuti prima.
Salvatore aveva infilato la testa sotto al guanciale per non sentire quella infame che continuava a martellare nella sua testolina ancora assonnata.
Poi finalmente silenzio per un paio di minuti seguito dal rumore del balcone chiuso da due mani, le stesse che subito dopo lo liberavano dal guanciale e lo accarezzavano amorevolmente. Se c'era una cosa che Salvatore odiava era svegliarsi prima delle dieci, ma se c'era una cosa che adorava era vedere il volto di sua madre appena aperti gli occhi.
Assuntina aveva le mani fredde per l'umidità del mattino. Aveva appena finito di stendere i panni proprio nel balconcino della camera dei suoi figli, perché di lì a poco il sole sarebbe arrivato sostando solo per qualche ora, il tempo giusto per asciugare magliette, pantaloni, mutande e calzini.
Siccome l'inferriata era rasente all'uscio del balcone, come una specie di mezza gabbia, la corda dei panni invece di essere tesa orizzontalmente, attraversava il vicoletto e andava a finire al lato del balcone di fronte, quello della signora Mercogliano come una sorta di comproprietà: i giorni dispari stendeva l'una, i giorni pari l'altra. Se poi c'era un'urgenza si chiamavano dal balcone e si accordavano.
«Mamma' e so' gelate 'sti mane!» sorrise Salvatore.
Assuntina allora se le sfregò sul grembiule di casa, le riscaldò con il suo fiato profumato di caffè e tornò ad accarezzarlo.
«E mo' ti vuoi alzare?»
«E mi alzo, mi alzo!»
«Lavati faccia e collo, pure arete e' recchie!»
«Sì, sì, vabbuono!»
In bagno Salvatore era molto rapido: l'igiene quotidiana per lui non era un piacere. In dieci minuti aveva lavato il necessario, si era spazzolato i capelli che ricci per natura, formavano meravigliosi boccoli castani come 'Amore' nel celebre quadro di Bouguerau.
Verso le otto meno venti Salvatore usciva dal vico Sant'Antonio Abbate per addentrarsi nel Corso Garibaldi. Camminava a passo veloce e nervoso con sotto il braccio sinistro un paio di libri e i quaderni dalle copertine lacerate, tenuti insieme da una cinghia blu e rossa. Aveva buttato giù una tazza di latte bollente e dei biscotti secchi, ma sentiva ancora di aver fame. E ad ogni bar che superava, l'odore del cappuccino e delle brioche non faceva altro che aumentargli la voglia di dolce.
Una voglia che raramente soddisfava. L'unica certezza che aveva era che doveva resistere fino all'intervallo delle dieci, quando Esposito tirava fuori la busta di patatine, Russo il panino con la Nutella e Iannaccone la solita fetta di torta preparata dalle sante mani della nonna. Così un pezzo qua e un pezzo là, il suo stomaco si illudeva di aver fatto merenda e poteva aspettare fino a l'una e mezza, quando a casa lo accoglieva finalmente quel familiare odore di cucinato. Fin dalle scale provava a indovinare se erano fagioli, pasta e patate o gli odiati cavolfiori! E quando avvertiva l'odore di pomodoro il suo pancino faceva festa e quasi si commuoveva per la gioia.
La sua scuola si trovava in via S. Alfonso Maria dei Liguori, in un palazzo anonimo dall'entrata triste e le scale buie e strette come le aule. Si saliva a passo lento come una fila davanti a un tram, finché ciascuno non raggiungeva la sua classe.
Salvatore aveva odiato quel posto fin dal primo giorno in cui ci aveva messo piede in prima media, anno in cui la promozione era giunta più per la generosità dei suoi professori che per il suo effettivo impegno, e quando l'anno successivo alcuni di essi furono trasferiti in altra sede, la sua ingenua speranza in un ennesimo miracolo rimase delusa. Così adesso si ritrovava tredicenne in una classe di dodicenni che considerava grassocci, brufolosi, timidi e piagnucoloni, tranne uno, quel secchione
odioso di Francesco Brigante. Odioso perché le risposte le aveva sempre pronte in ogni materia e non prendeva mai un voto inferiore al nove. Magro, alto per la sua età, vestito con pantaloni classici e camicia, come un adulto, i capelli con la fila di lato, l'aria troppo seria, troppo intelligente, troppo educato, insomma, era insopportabile!

Francesco Brigante si svegliava ogni mattina nella sua camera tutta dipinta di azzurro. Sulla parete del suo letto un poster sfoggiava i possenti muscoli degli eroi della Marvel. A destra, una scrivania in legno antico esprimeva tutto il suo mondo: una foto al mare con mamma e papà e la sua sorellina Adele, allora ancora in fasce; un portapenne arcobaleno, realizzato alle elementari con il solito cartoncino della carta igienica; una lampada bianca in ferro e infine un modellino di aeroplano militare della seconda guerra mondiale, infilzato in una base in ferro e posizionato obliquo, come se stesse in atto per volare. Sopra questa scrivania, una mini-libreria a muro raccoglieva, oltre ai libri di scuola, alcuni classici della letteratura: Il richiamo della foresta, Zanna Bianca, Ventimila leghe sotto i mari, Pinocchio, Cuore.
In cucina si preparava da solo la sua colazione: succo di arancia e fette biscottate con burro e marmellata. Il latte un giorno non lontano aveva deciso di non berlo più: gli sembrava un'abitudine da bambini. Dopo di ciò si recava ancora sonnolente in bagno dove l'attendeva un'operazione che detestava. I suoi capelli, infatti, la mattina erano un disastro: tutti sparati e unti. Si metteva allora davanti allo specchio del bagno con santa pazienza: una passata di phon, la spazzola per stirarli e poi della crema oleosa che usava anche suo padre per tenerli fermi e compatti finché non tornava a casa. Il risultato non lo soddisfaceva molto, ma tanto alla sua compagna di classe Teresa, quella che già aveva il seno sviluppato, piaceva Domenico della terza B. Era risaputo da tutti a scuola, per lui non c'era speranza! Le altre in classe sua non destavano il su interesse: o troppo magre, o troppo grasse, ma soprattutto la maggior parte non sapeva parlare bene in italiano, aspetto per lui determinante per una sana comunicazione. L'unica che poteva reggere al suo confronto era Maria Grazia, la secchiona della classe. Ma lei era davvero troppo, troppo brutta e troppo, troppo seria!

«Sbrigati Francé sono già le sette e mezza!» urlava suo padre davanti all'ingresso. «Oggi faccio il turno centrale, ci vediamo verso le sei.» seguiva un rumore di chiavi nella toppa e quello della porta che si chiudeva.
«Ciao babbo!»
L'ultima sistemata ai capelli, maglioncino di filo blu sulla camicia bianca odorosa di detersivo e le scarpe nuove un po' scomode, da allargare pazientemente camminandoci dentro.
La camera dei suoi genitori era socchiusa. Francesco la aprì con delicatezza per evitare quel solito fastidioso scricchiolio dei cardini. Nella penombra vedeva di spalle la figura esile di sua madre che forse dormiva ancora. Si sbagliava. Non fece nemmeno un passo e lei si voltò. I capelli lunghi e biondi le coprivano mezzo viso, ma non il collo. E proprio lì gli occhi di Salvatore si fiondarono. Anche se non voleva alla fine sempre lì andava a guardare. Dentro di sé, nella sua semplicità ed ingenuità di ragazzino, ogni giorno sperava che all'improvviso quei segni sparissero, come se mai ci fossero stati. Detestava quella cicatrice ancora arrossata intorno ai punti che dovevano cadere. Quella cicatrice che da sola racchiudeva il ricordo dell'annuncio dell'operazione, dell'assenza di sua madre per giorni che sembrarono infiniti, del volto preoccupatissimo di suo padre, delle cene da soli senza di lei e senza la sorellina Adele, che era a casa dei nonni e poi finalmente del suo ritorno a casa, smagrita, pallida, triste, stanca. 
«Vieni tesò!»
Francesco si abbandonò ad un tenero abbraccio mentre sua madre lo baciava più volte in testa.
«Hai dormito bene ma'?»
«Benissimo!» 
«Vado a scuola.»
«Vai, ci vediamo oggi, mi raccomando, bravo come sempre.»
«Sì, certo!»
Dalla culla di fianco al letto, la piccola Adele si mosse gemendo. La madre allora si portò l'indice dritto sulla bocca e Francesco le fece da specchio. Si scambiarono un sorriso di intesa, dopo di che Francesco si fiondò giù per le scale ad iniziare una nuova giornata. 


«Uè o' ciurillo, vaje a' scola?»
«Sì don Gaetano.»
«Faje o' brave ciurì!»
«Sì signora Maruzze'.»
«Dincelle a tua madre c' a oggi arrivano e' piezze bbuone!»
«Oggi c'ho diche, O' Mast.»
Salvatore camminava a passo svelto per il corso Garibaldi salutando a destra e a manca come un vip.. Con la sua faccetta sempre sorridente, lo sguardo furbetto e il fischiettare le più famose canzoni neomelodiche del momento, era una gioia incontrarlo a prima mattina. 
All'angolo con via Nicola Rocco raggiunse il suo amico Gennarino, detto Rino, un quattordicenne corpulento, che ancora non si era deciso ad abbandonare la scuola media. Si schiacciarono il cinque e si scambiarono il solito «Uè fra' tutt'appost?». Appartatisi in un angolo, tirarono fuori i rispettivi pacchetti di Marlboro di contrabbando per concedersi la prima sigaretta della giornata.
«Quante ne tieni ancora?» chiese Rino.
«Quattro.»
«Allora ce la fai fino a domani.»
Salvatore fece una smorfia come a dire: hai voglia!
Sua madre, infatti, come attività lavorativa svolgeva quella di venditrice di sigarette di contrabbando. Per questo il rifornimento non gli mancava, anche se lei era contraria che fumasse, ma non fino al punto di impedirglielo con decisione. Gli diceva solo: «Ciurì, te fa male!» per poi ridere quando lui gliela sfilava dalle dita per mettersela in bocca.
«Non c'ho fa sapé a' patete! Si chillo o' scopre...» e ondeggiava la mano a taglio per indicare le botte, le mazzate che gli si sarebbero scaricate addosso.
«E chi c'ho dice? Io no!» rispondeva il ragazzo tra le boccate già esperte.
A prima mattina tra l'umidità e lo smog delle auto, Salvatore e Rino con tutta la dovuta calma si avviavano verso l'entrata della scuola già affollata di studenti.
Da lontano Salvatore scorse Francesco Brigante. Lo fissò per un po', poi con una spallata attirò l'attenzione di Rino: «Lo vedi a quello?» L'amico annuì. «Nun saje comme o'schifo!»

(.........)


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