Oltre il Vesuvio
Capitolo 2 (parte seconda)


Erano passati quasi 16 anni, anzi volati. Assuntina era sempre bella e magra nonostante le quattro gravidanze; la natura con lei era stata generosa e per questo Lino voleva sempre essere messo al corrente di dove andasse quando lui era al lavoro.
«E dove vuoi che vado con quattro figli?» gli rideva in faccia senza cattiveria, piuttosto orgogliosa della sua gelosia che per lei voleva dire amore.
La sua giornata cominciava presto. C'erano sempre panni da stendere, stanze da pulire; pranzi, merende e cene da preparare oltre alle pappe per la piccola Maria Concetta di appena due anni. Pinuccio il secondogenito che aveva 10 anni, ormai se la cavava da solo, sapeva anche farsi due uova o un panino se aveva fame. Carmelina, invece, sebbene avesse 7 anni mostrava grosse difficoltà nel parlare e si muoveva lenta, incerta, sembrava eternamente impaurita. I suoi familiari pensavano che fosse solo questione di timidezza per cui non ci davano peso. Così come non davano peso al fatto che a scuola andasse malissimo. «E vabbé a scola nun ce piace a Carmelina, quella starà cu mammà quando se fa vecchia.»
A modo suo Assuntina aveva capito che qualcosa non andava nella testa di Carmelina, ma non importava. Non era detto che crescendo non si sarebbe sbloccata. Era comunque la più ordinata dei suoi figli, l'unica che amava aiutarla nelle faccende domestiche. Quindi, scema non era! Tornata da scuola, infatti, mentre Pinuccio faceva i compiti e Salvatore era a zonzo per i vicoli di Napoli, Carmelina spazzava in cucina, toglieva la polvere o rimestava il sugo in pentola. E se non c'era nulla da fare, si sedeva accanto alla mamma mentre dava da mangiare alla piccola Maria Concetta o si metteva a sferruzzare all'uncinetto. Riusciva a fare dei centrini bellissimi, tanto che la vicina di casa, che era sarta, aveva un giorno esclamato: «E questa bambina diventerà proprio 'na brava sarta!»
«Hai visto a' mamma, sei contenta?» le aveva detto fiera Assuntina. Carmelina era rimasta muta come sempre, si era nascosta per metà dietro sua madre e con il dorso di una mano aveva celato il suo bel sorriso.
Pinuccio, purtroppo, geloso della sorella, non perdeva occasione per prenderla in giro. «E quanne te scite, né? Quando ti svegli Carulì che l'aria è doce!» e rideva. Non sopportava la lentezza in tutto ciò che faceva. Lo irritava, lui, che aveva l'argento vivo.
«Faccio sempre tardi a scuola perché questa è moscia!» Urlava alla madre stizzito. Così, per evitare ulteriori litigi, Assuntina la faceva accompagnare a scuola da una vicina di casa, quella stessa sarta che ammirava i suoi uncinetti e che comunque non poteva fare a meno di restare senza parole quando si accorgeva di aver parlato da sola durante il tragitto fino a scuola. «E' troppo timida 'sta bambina.» pensava, ma poi non ci pensava più.

Ogni mattina Assuntina si dedicava alla cura della casa: una cucina e due camere piccolissime.
La cucina che oggi chiameremmo angolo cottura, era illuminata da una finestrella rettangolare in alto che la donna apriva con l'aiuto di una mazza di ferro.
I pensili in legno di truciolato scuro, occupavano circa due metri dei due metri e mezzo della parete. A destra c'era un frigorifero rumorosissimo. Al centro, un tavolo quattro posti in legno non antico ma vecchio, aggraziato da un centrotavola beige lavorato ad uncinetto sul quale poggiava un piatto in ceramica bianco decorato con enormi fiori blu, rossi e gialli, destinato a contenere la frutta  che invece era quasi sempre vuoto. Al lato del centrotavola c'era una ceneriera in vetro trasparente. Quella invece, era sempre piena.
Il lampadario al centro del soffitto era una specie di cappello in plastica biancastra al quale mancava un pezzo strappato via dalla improvvisa furia calcistica di Salvatore. Il neon sotto ci stava di sbieco. Inutili le richieste di Assuntina perché Lino lo aggiustasse. Lei le mani nelle cose degli uomini non ce le metteva. E sì, mo' doveva pure occuparsi dei lampadari, non bastava quello che faceva in casa? Solo che Lino quando tornava a casa era stanco. Si sedeva muto a tavola e attendeva il piatto caldo o freddo davanti, a seconda della stagione. Il resto non gli interessava.
Era cambiato molto da quel maledetto giovedì 24 marzo di tre anni prima. Maledetto quel giorno! Ma che gli era saltato in mente? Da allora era così invecchiato! Sorrideva raramente, dormiva tanto, mangiava tanto. Ma la vita è così, si cambia prima o poi e quasi sempre in peggio.
Era successo che quel 24 marzo di tre anni prima quel campione di suo marito aveva rubato un motorino, e sì, ma non per rivenderlo e nemmeno per tenerselo. Lo aveva rubato per farci un giro con Salvatore. Ma quella che doveva essere una ragazzata - aveva infatti sempre affermato che era sua intenzione restituirlo quella sera stessa - si trasformò in una mezza tragedia.
Lino non sapeva che  proprietario del motorino era un certo Gennaro Capuozzo, un uomo di 40 anni senza né arte né parte, che viveva alla giornata, non si sapeva bene di cosa, ma lo si poteva intuire. Siccome conosceva mezzo quartiere non gli fu difficile trovare Lino, Salvatore e il  motorino. Si fiondò con due amici, due facce brutte segnate dal fumo e dalla fame di pugni. Lo pestarono a dovere, risparmiandogli la vita forse solo perché fortunatamente si trovò a passare un'auto della polizia.
Ci vollero due mesi perché Lino si rimettesse in sesto, due mesi trascorsi in un mutismo rabbioso mentre meditava su come vendicarsi. Infatti, il pensiero di essersi fatto massacrare davanti allo sguardo terrorizzato di suo figlio, per quello che per lui restava un futile motivo, dato che era sempre stata sua intenzione restituire il preso, gli sembrava un'onta inguaribile. Non poteva permettersi che l’accaduto insegnasse a Salvatore a vivere come un codardo, né voleva sembrare ai suoi occhi un perdente. Così cercò in giro qualcuno che ce l’avesse a morte con Gennaro Capuozzo per qualsiasi motivo. Quando li trovò, due balordi del quartiere Stella, dovette patteggiare non poco riguardo alla ricompensa che si aspettavano. Lino non possedeva nulla di valore e in quel periodo non stava nemmeno lavorando. Andavano avanti grazie ad Assuntina che faceva pulizie in giro per il quartiere e alla generosità dei rispettivi genitori. Si sentì costretto allora, a farsi prestare dei soldi dalla signora D’Aniello, una donna sui cinquanta, dal petto enorme e lo sguardo arcigno.
Quando giunse a casa sua, un basso arredato con mobili e accessori di lusso, Lino si sentì quasi intimidito. Era alta, i capelli di un biondo troppo giallo tenuti su con uno chignon, gli occhi cerchiati da una linea spessa di matita nera e le labbra coperte da un rossetto color ciliegia che persino a Lino che di queste cose poco si interessava, sembrò eccessivo. Anche le unghia delle mani erano laccate di un rosso vivace che non poteva passare inosservato su quelle dita grosse, tozze, rugose, strozzate da anelli d’oro enormi e pacchiani. Ai polsi portava bracciali dalla maglia spessa e al collo una collana con un crocifisso che da sola poteva valere anche due milioni di lire. Lino rapidamente si fece due conti: quella donna addosso aveva abbastanza oro per acquistare una 127 seminuova.
«Signor Cannetiello, queste quattrocentomila lire me le dovete restituire entro la fine dell’anno. Potete scegliere voi, o cinquecento tra un mese o cinquantamila per dieci mesi.»
Lo aveva detto sottolineando quasi ogni parola con il picchiettio dell’indice sulle quattro banconote da cinquanta sistemate a ventaglio sul tavolo in marmo rosa.
Lino le fissava e fissava pure la faccia dipinta di quell’uomo con i capelli scuri che sembravano sollevati da un vento leggero, gli occhi spiritati e la bocca socchiusa. Sembrava gli dicesse: “Lino lascia perdere, staje facenno ‘na strunzata!” E fu proprio in quel momento che temendo un vile ripensamento Lino guardò serio la signora D’Aniello e pronunciò deciso:
«Non ve ne incaricate. Ogni mese avrete le cinquantamila lire, quant’è vero che mi chiamo Pasquale Cannetiello!» La voce era uscita fredda e calma, mentre un sudore freddo gli imperlava la fronte.
Una settimana dopo Gennaro Capuozzo si vide arrivare addosso una mitragliata di calci e pugni da Lino e i due mercenari del quartiere Stella, già noti alle forze dell’ordine, i quali quando in seguito furono arrestati non persero tempo a raccontare il motivo del pestaggio e Salvatore fu arrestato.
Dopo sei mesi trascorsi a Poggioreale, qualcosa di profondo in Lino cambiò. Improvvisamente si intristiva, si incupiva, si ammutoliva. Sembrava come assentarsi con la mente. Allora Assuntina lo scuoteva con la mano sulla spalla: «Linù, ma che ch’ai? Stai bene?» Lino allora si riprendeva e la rassicurava abbracciandola.
Dopo l’arresto la signora D’Aniello generosamente aveva concesso una proroga di sei mesi per il pagamento delle rate del suo debito, ma gli interessi intanto erano cresciuti. Adesso le rate erano di settantamila al mese.
Visto che Lino faticava a trovare lavoro, Assuntina aumentò il numero di ore per le pulizie la mattina, mentre alla sera lavava i piatti in una pizzeria di una conoscente. A Lino rimase il compito di occuparsi di Salvatore, Pinuccio e Carmelina compito che non lo disturbava affatto, amava stare con i suoi figli, tuttavia lui era il capofamiglia e non poteva accettare che sua moglie lavorasse e lui no. Piuttosto doveva essere il contrario.
Chiese a destra e a manca finché trovò lavoro presso un’officina; lo stipendio era discreto al punto da permettere finalmente ad una stanca e smagrita Assuntina di tornare a fare la mamma a tempo pieno, giusto in tempo per scoprire di essere di nuovo incinta.
(...)

Commenti

  1. devo dirtelo: raramente mi soffermo sui racconti altrui, ma questo mi è piaciuto... nonostante Napoli sia veramente inflazionata al massimo come cornice!

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